mercoledì 25 ottobre 2017

Fleurety - The White Death: oltre il limite

(Recensione di The White Death dei Fleurety)


In molti aspetti della vita uno dei modi di capire quale sia la propria capacità nel riuscire a fare qualcosa è quello di andare oltre ai limiti. Farlo significa mettersi in gioco con tutta l'anima ed oltre e se il risultato si verifica molto spesso si è di fronte ad una vera e propria impressa. Perché sono quelle caratteristiche quelle che cambiano tutto passando da qualcosa già visto o vissuto a un successo, anche solo di valore personale. Per quello andare oltre i limiti può essere a tutti gli effetti una filosofia di vita.

Nel caso dei norvegesi Fleurety non si può parlare soltanto di andare oltre i limiti, perché in realtà sembra che non conoscano proprio i limiti. The White Death è il loro terzo album uscito in una travagliata carriera che vede la band attiva ad intermittenza dal 1991. Ma anche se temporalmente la loro carriera sembra scontante non lo è quant'altro a livello di proposta musicale. Quello che viene fatto in questo progetto non ha alcun paragone con qualsiasi altra cosa sentita. La loro concezione della musica sembra avere come direzione obbligatoria quella dell'avanguardia, della sperimentazione esaltata nelle forme e nei contrasti. Si potrebbe pensare che il risultato che ne viene fuori sia complessi ed incomprensibile ma non è così. Questo non vuol dire che questo disco riesca ad essere capito e goduto da qualsiasi persona, perché è indubbio che è necessaria una forte propensione ad un'apertura mentale che abbracci l'entusiasmo e la voglia di dare nascita a fiori mai visti di strani ed oscuri colori cangianti. 

The White Death

C'è da dire che The White Death non ha solo la particolarità della sua concezione musicale come punto di forza. L'altro aspetto che rende questo disco un disco unico è il fatto di mettere insieme una serie di musicisti pazzeschi che sembrano trovare pane per i denti dentro alla concezione musicale che c'è dietro ai Fleurety. Per quello oltre ai due membri fondatori, e faccia visibile della band, Alexander Nordgaren (ex Mayhem) e Svein Egil “Zweizz” Hatlevik (musicista di una versatilità ed un senso dell'avanguardia come pochi altri), questa nuova pelle della band si nutre dell'innesto di Czral-Michael Eide (Virus, Aura Noir, ex-Veds Buen Ende), Linn Nystadnes (Deathcrush, Oilskin), Krizla (Tusmørke, Alwanzatar) e Filip Roshauw (The Switch). Non ci poteva aspettare null'altro che un disco imprevedibile, sorprendente, che gioca con tutto quello che conosciamo dentro al black metal ed all'avantgarde metal. Ed è proprio così. Questo disco è uno di quei lavori che al primo ascolto lascia l'ascoltatore incredulo, un ascoltatore che avrà bisogno di una pausa che li permetta di digerire quello che ha appena vissuto prima di prendere il coraggio di regalare un secondo ascolto alle otto traccie che compongono questo disco. Ma superato quello shock iniziale sarà impossibile fare a meno di ripetere e ripetere questo disco, a rischio anche di far sembrare banale tutto il resto. 
Spiegare il perché di questo effetto non è semplice ma il primo elemento da prendere in considerazione è che quello che c'è in questo disco può sembrare parzialmente simile a qualcos'altro, ma solo durante pochi secondi per poi guidarci da tutta un'altra parte. E se consideriamo che le menti che si celano dietro a questo lavoro sono quelle di personaggi che per vie alterne ci hanno già regalato delle idee musicali nuove e molto interessanti risulta ancora più sorprendente quello che si ascolta in questo disco. 

Tutte le canzoni nascono da qualcosa, da una melodia canticchiata, da un giro di chitarra particolarmente effettivo, da un ritmo ossessivo ed ipnotico, da una strofa struggente che suggerisce proprio qual è la musica che la deve accompagnare. Ebbene io non ho idea di come possa essere nato questo The White Death perché non c'è modo alcuno d'aggrapparsi alla sicurezza che da qualcosa di riconoscibile ed individuabile. Sembra un gioco crudele quello dei Fleurety, un gioco che mette a dura prova il modo di concepire la musica nell'accezione più comune. Nulla è scontato in questo disco, nulla è semplice, nulla vuole essere semplice. Ma non perché s'insegua la complessità, semplicemente perché le strade percorse dalla band sono strade mai percorse prima, e quando qualcosa è inedita spaventa tanto quanto affascina. 

Fleurety

Ancora più che mai in questo lavoro non c'è una linea comune tra tutti i brani che si trovano dentro. Anzi, il gioco è complesso, perché da una parte si può tranquillamente parlare di suono alla "Fleurety" ma d'altra ogni brani differisce così drasticamente da quello precedente e da quello successivo che è impossibile segnalare una sola direzione dentro quello che viene fatto. Per quello anche se penso un paio di tracce di questo lavoro è impossibile, e assolutamente erroneo, cercare di farsi un'idea solo da quelli esempi.
The White Death mette subito in chiaro tutto quanto. Inizia come potrebbe aver inziato un brano dei Ved Buens Ende ma subito dopo il "ritornello", se di ritornello si può parlare, ci spiazza. La voce femminile è un contrasto impressionante che annienta l'oscurità musicale e della voce maschile. Ma non basta, la reiterazione ossessiva di certe parti sembrano dominare l'ascoltatore per poi scuoterlo fino in fondo. La ricerca armonica è essenziale, il modo nel quale le note si susseguono senza regalare nulla da aggrapparsi.
Lament of the Optimist è pazzia pura. Un ritmo black metal che sposa una serie di suoni elettronici che sembrano tirati fuori da un brano dance. Per quello più di qualcuno urla: "ma che diavolo è questo!" E' una nuova frontiera, tutta lì per noi.


Andare oltre al limite. Questo sembra essere il motore che da la forza a The White Death. Ma la cosa particolare è che fare qualcosa del genere sarebbe una forzatura non semplice per qualsiasi musicisti. Invece i Fleurety hanno fatto da sempre di quella caratteristica il loro modus operandi. Tra pazzia e genialità il confine è molto sottile. Per quello qualcuno penserà che questo album è molto difficile d'ascoltare e da capire. Per tutti gli altri benvenuti in un nuovo confine musicale.

Voto 9/10
Fleurety - The White Death
Peaceville Records
Uscita 27.10.2017

Pagina Ufficiale Fleurety

martedì 24 ottobre 2017

Major Parkinson - Blackbox: dentro alla scatola nera tutto può succedere

(Recensione di Blackbox dei Major Parkinson)


Uno degli aspetti più affascinanti della natura, e che lascia spazio alla maggiore immaginazione, è quello degli ibridi. L'ibrido è quello che nasce dall'unione di due razze o specie diverse e come si sa bene non sempre fare questo genere di esperimento garantisce un risultato ottimale, ma quando è così c'è sempre da essere molto entusiasta. La musica è un costante susseguirsi di ibridi e per quello la musica è viva, fresca, sorprendente e pronta a regalarci di volta in volta dei dischi preziosi. 

Blackbox dei Major Parkinson è un ibrido perfetto, è la ridefinizione di una serie di idee orientate a regalarci un "prodotto" ricchissimo e completissimo. Per arrivare a questo punto si denota che dietro a questo album c'è parecchio lavoro, un lavoro fatto con cura maniacale, cercando di dare un senso anche ad ogni piccoli sfumatura. L'entrata ed uscita in gioco delle diverse sonorità che si susseguono sono un vero trionfo. Eh sì, come vedete questo disco mi è piaciuto parecchio. Il perché è dovuto all'originalità che lo costruisce ed al modo nel quale tutto viene messo insieme. Sembra di aver capito tutto quanto per essere sbattuto da una parte all'altra. Sembra di essere riusciti a capire la direzione che la band vuole prendere quando improvvisamente si svolta da un'altra parte. Questo è un disco progressivo ma non lo sembra, questo è un disco cinematografico ma non necessita d'immagini per esserlo, questo è un disco intelligente ma che non deve vantarsi con nessuno da questa intelligenza. Questo è dunque un disco che può essere preso da qualsiasi persona, a prescindere della musica che predilige, e rimanere catturato in questa scatola nera all'interno della quale succedono delle cose impensabili.

Blackbox

In molti tendono ad associare al nome dei Major Parkinson quello di Tom Waits, questo per via di due aspetti. Il primo è il timbro vocale del cantante della band, il secondo è per il carattere goliardico che prendono diverse canzoni. Ma fermarsi a questa comparazioni sarebbe molto limitante. Infatti per capire questo Blackbox bisognerebbe immaginarsi un Waits obbligato ad abbandonare l'aspetto più rock della sua musica per avvicinarsi all'elettronica intelligente con strutture progressive che delineano dei brani in costante evoluzione. Infatti per il modo, quasi sintetico, di lavorare con la componente musicale a me viene molto in mente quello che è stato fatto da un progetto molto interessante come quello di O.S.I. ma credo che i Major Parkinson  regalino qualcosa in più a tutto quello che fanno. Infatti la loro musica è piena di pathos, piena di contaminazioni, piena di citazioni musicali, piena di strizzatine d'occhio a quello che è la cultura odierna. Per quello la loro musica è così interessante, perché è intelligente, è sarcastica quando deve esserlo, è seria quando ci dev'essere serietà.

Major Parkinson

Se io dovessi paragonare Blackbox con qualcosa lo farei con'opera teatrale di pieno successo. Perché non basta avere una bella storia da raccontare. Quello che rende immortale un'opera del genere è anche lo spessore del lavoro di recitazione degli attori. Ecco, nel caso dei Major Parkinson abbiamo una storia solida, originale, interessante, mai banale, ricca di colpi di scena, ma oltre a tutto ciò abbiamo anche degli interpreti che riescono a calarsi completamente nei ruoli, come se l'attore sparisse completamente e lasciasse spazio pieno al personaggio. Questo disco è uno spettacolo che si vuole vedere e rivedere, una e mille volte perché è prezioso, ma occhio, perché se non si svelti e veloci si rischia di rimanere senza biglietti.

Major Parkinson

L'album intero merita un attento ascolto perché regala ed assicura stupore minuto dopo minuto e dunque diventa molto difficile essere selettivo e pescare solo pochi esempi. A malincuore lo faccio per indirizzarvi verso tre dei brani che possono essere la perfetta porta dentro a questa scatola nera.
Il primo è Night Hitcher. Brano oscuro e ricercato, brano che sorprende per la sua capacità di ricreare un ambiente così presente da viverlo. Si respira questo mondo fantastico, fanta/scientifico che ci parla di viaggi spaziali, di un futuro dell'umanità che sembra essere nelle stelle e non nel nostro proprio pianeta, ma per arrivarci dobbiamo viaggiare in mezza alla notte eterna. Ma quando il viaggio sembra lineare ecco che il brano cambia, che ci parla con grandezza di quello che significa questo viaggio.
Il secondo è Isabel - A Report to an Academy. Qua entriamo nel mondo recitato, nel modo di raccontare storie in modo teatrale. Tra l'altro il gioco di voci tra quella maschile e quella femminile dell'ospite del disco Linn Frøkedal diventa prezioso. Un modo di costruire una tensione palpabile nella storia. In questo brano vengono fuori tanti personaggi da abbracciare e portarsi nell'anima.
Ma vi parlavo anche del modo goliardico di concepire la musica da parte della band. Per quello un brano come Madeleine Crumbles diventa delizioso. Dalla sua citazione più o meno voluta a Stayin' Alive al modo di mettere insieme parti futuristiche con altre divertenti. Un brano che porta a dire: "ma cosa sto sentendo!" perché stupisce con una bellezza unica e divertente.


Non mi stancherò mai di affermare che la musica è un fonte inesauribile. E lo farò perché ci sono esempi come Blackbox dei Major Parkinson che mi regalano modo di dimostrare che è proprio così, che ci sono artisti in grado di costruire dischi intensi, intelligenti e profondi senza per quello essere pedanti o altezzosi. Questo è un disco che non annoia mai, che regala nuove letture ascolto dopo ascolto e che da nuove prospettive all'evoluzione preziosa della musica. Grazie.

Voto 9/10
Major Parkinson - Blackbox
Karisma Records
Uscita 27.10.2017

Sito Ufficiale Major Parkinson
Pagina Facebook Major Parkinson


domenica 22 ottobre 2017

Wobbler - From Silence to Somewhere: oh vita dolce!

(Recensione di From Silence to Somewhere dei Wobbler)


Credo che la differenza fondamentale che c'è tra fare qualcosa di nuovo usando vecchie sonorità e cadere in una anacronistica copia è che il primo caso è degno di applauso e di entusiasmo. Il secondo, invece, denota una fossilizzazione a livello di idee e di originalità. Per chi è un assiduo lettore di questo blog sa perfettamente che, in un modo o l'altro, la mia ricerca musicale è quella della novità, del lavoro inedito che fa capire che nella musica c'è tanto ancora da dire. E per fortuna di settimana in settimana m'imbatto in lavori che mantengono immutato il mio entusiasmo verso una delle cose più belle della nostra vita: la musica.

From Silence to Somewhere è il quarto album dei norvegesi Wobbler ed è un disco che a ogni ascolto regala un'intensità emotiva propria di grandi dischi. Il perché è dovuto ad una incredibile alchimia che riesce a mettere insieme l'utilizzo cospicuo di un linguaggio musicale passato, com'è il rock progressivo scuola anni 60/anni 70 e la capacità di regalare lo stesso un album che suona attualissimo e bellissimo. Perché è facile avere certe capacità musicali che ti portino a costruire fedelmente un disco di un certo genere, già difficile da suonare, ma non lo è affatto poter costruire un lavoro pregevolissimo ed originale. Ed è proprio quello che è riuscito a fare questo gruppo. Nelle quattro tracce che compongono questo lavoro abbiamo un racconto sonoro e linguistico che si dipinge da quella poetica che ha dato al rock progressivo un profilo intellettuale che per fortuna lo distanziava dalla noiosa capacità tecnica di suonare complesse strutture. Questo è un disco composto con maestria, con la voglia immensa di emozionare l'ascoltatore, di non lasciarlo mai tranquillo ma grazie alla tensione che si riesce a creare quello che viene fuori è un coinvolgimento totale, come se questo disco godesse nel catturarci e non ci liberassi fino a che l'ultima nota si spegnesse. Mica facile!

From Silence to Somewhere

Questo disco ha tanti richiami verso la musica di mostri sacri del rock progressivo, come i Gentle Giant, i primi King Crimson, i primi Genesis o gli italianissimi PFM e Banco del Mutuo Soccorso. Gruppi tutti che sono passati alla storia non tanto per la loro impeccabile capacità musica e strumentale ma per la costruzione accurata di brani preziosi, che ormai sono patrimonio dell'umanità. Ebbene, dal mio umile punto di vista pure questo disco merita questo sguardo. Lo merita perché è un disco che emoziona, è un disco dove risulta difficilissimo trovare delle lacune, è un disco che è suonato magistralmente da musicisti bravissimi. Non basta per convincervi? E allora metto in atto un asso che avevo nella manica. From Silence to Somewhere è un disco che poteva nascere soltanto nel 2017. Poco importa selle acque da dove bevono i Wobbler siano delle acque antiche. C'è un'alchimia che è assolutamente nuova, delle sfumature che danno a questo lavoro un profilo assolutamente odierno, con un insieme di suoni che coniuga alla perfezione passato e presente. Per quello anche se il punto di riferimento principale della band sono delle idee sonore di quasi 50 anni fa è impossibile non denotare tracce di tutto quello che è successo nella musica in questi ultimi anni. Tra l'altro anche il mondo è molto diverso da com'era allora e anche di questo c'è traccia in questo disco. Come se certe "timidezze" di lavori del passato non trovassero più spazio, diventando così un lavoro spinto ma mani esagerato.

From Silence to Somewhere

Mi sembra molto più difficile essere in grado di costruire qualcosa di profondamente valido affidandosi a formule consolidate. Questo perché per riuscire a non cadere nella via più semplice ed effettiva bisogna essere veramente propositivo bisogna essere intelligente e talentuoso. From Silence to Somewhere (titolo bellissimo tra l'altro) è proprio così. E' un disco pieno d'intelligenza, un disco ingannevole perché non usa soltanto un passato musicale ma ci regala anche un futuro propositivo ed un presente fatto di evoluzioni molto addentrate in ognuno di noi. I Wobbler hanno sfornato un disco immenso.

Wobbler

Essendo questo un lavoro di quattro tracce, delle quali una è un piccolo intermezzo musicale, non mi sembra assolutamente giusto analizzarne solo qualcuna, per quella faccio qualche annotazione sulle tre tracce cantate.
From Silence to Somewhere è epica. Intensa e vissuta, raccoglie alla perfezione l'eredità lasciata da quelle canzoni progressive che raccontavano tante storie.
Fermented Hours è sicuramente un omaggio molto sentito al progressive italiano, per quello ha una parte recitata proprio in questa lingua ed è ricco di quella capacità quasi drammaturgica di trasformare la musica in vere e proprie opere teatrali. Bellissima.
Foxlight inizia cattiva, come se fosse la canzone più "arrabbiata" di questo disco, ma piano piano che va avanti lascia lo spazio alla bellezza dei cambi, alla capacità di passare da una parte all'altra come se saltassimo continuamente felici di roccia in roccia.


Faccio sempre molta attenzione ad esprimere giudizi troppo positivi, perché qualche volta l'entusiasmo di un primo ascolto annuvola la mente non permettendo di avere uno sguardo completo di quello che si sta sentendo. Per quello mi curo molto nell'affermare che From Silence to Somewhere dei Wobbler è uno dei migliori dischi di questo 2017. E mi auguro che anche voi la pensiate così. 

Voto 9/10
Wobbler - From Silence to Somewhere
Karisma Records
Uscita 20.10.2017

sabato 21 ottobre 2017

Collapse Under the Empire - The Fallen Ones: post rock cosmico

(Recensione di The Fallen Ones the Collapse Under the Empire)


Se c'è un sinonimo di modernità sicuramente è il suono synth. Quel suono che era assolutamente inesistente prima che la musica abbracciasse l'elettronica aprendo un'infinità di nuove vie da percorrere. Per quello tutt'ora associamo quel genere di suono ad un immaginario fantastico, che ci parla di mondi cosmici, di pianeti da scoprire, di un futuro cibernetico. Ed è curioso che basti proprio qualcosa del genere per suggerirci tutto quel mondo. Ecco ancora una volta la magia della musica in atto.

The Fallen Ones

The Fallen Ones è il sesto disco dei tedeschi Collapse Under the Empire e ci mostra come i confini del post rock siano tutto tranne che limitati. Questo grazie al loro modo assolutamente personale di approcciarsi a questo genere contaminandolo con massicce dose di synthwave. Il risultato non è soltanto piacevolissimo ma, dal mio punto di vista, molto più interessante con rispetto a tanti altri progetti di questo mondo musicale. Perché dico questo? Perché credo che ci sono certi stereotipi che purtroppo limitano un po' l'immaginazione regalando lavori che si assomigliano molto l'uno con l'altro. Ebbene, nel caso di questo duo tedesco non è proprio così. E' veramente interessante vedere qual è la piega intrapresa dalla loro musica. Una piega che ci guida ad un mondo dove lo spazio conquistato dalla fantasia prevale di fronte a diverse altre alternative. E' questa conquista quello che rende preziosa la proposta di questo progetto, perché fa di loro una realtà senza paragoni, dei precursori di una corrente molto interessante.

The Fallen Ones

Quale sono le caratteristiche che vanno a giustificare le mie indicazioni fatte poc'anzi? La musica dei Collapse Under the Empire coniuga magistralmente du mondi musicali che potrebbero sembrare sconnessi come sono il post rock ed il synthwave. Le loro canzoni strumentali riescono a prendere il meglio di entrambe le parti, avendo dunque quella immensa capacità evocativa che si ritrova nei lavori meglio riusciti del post rock. Le loro canzoni raccontano storie senza necessità di parole. Ma dall'altra parte prendono quelle atmosfere uniche che solo il synthwave riesce a dare. E' come se prendessimo i God is an Astronaut e gli facessimo suonare la sigla di Stranger Things. Il risultato è sorprendente e bellissimo, è una nuova frontiera che da un altro tocco, perché toglie il post rock da quella fermezza "umana" e "terrestre" per consegnarlo a una dimensione "cosmica". E' come se guardasse molto più in alto per in realtà, guardare molto più all'interno. E' tutto bello perché viene fatto nel modo giusto, senza mai forzare nulla, trovando lo spazio adatto per i due mondi che s'intrecciano. 

The Fallen Ones

E' difficile dire quale sarà stata la genesi di questo The Fallen Ones così come di tutta la musica dei Collapse Under the Empire. Sarà stata la voglia di fare qualcosa dove i suoni sintetici avessero la meglio su tutto o invece è stato un grande spirito post rock a portare questo progetto a pensare di offrire qualcosa di nuovo? Posso azzardare a dire che è andato tutto dalla mano, che in quello spazio musicale non esiste qualcosa senza la presenza dell'altro. Ed è per quello che questo disco gira così bene, per quello ci da l'impressione di essere di fronte ad un'opera di un gruppo ormai consolidatissimo.

Collapse Under the Empire

Prendo due brani che illustrano al meglio l'intento musicale della band.
Il primo è The Fallen Ones. Delizioso, intenso, è l'invito a salire su quest'astronave e lasciarsi guidare ovunque. Ben poco importa quale sia l'effettiva destinazione, già solo il viaggio vale il prezzo del biglietto. I synth anni 80 sono preziosi ed essenziali a farci capire con che disco abbiamo a che fare.
Il secondo è Blissful. Se il primo ci metteva in chiaro come i synth sono un organo vitale di questo progetto qua ci viene ribadita l'idea ma lasciando anche ampio spazio alle dinamiche del post rock. Per quello quando il brano entra nel cuore del suo sviluppo quello che ci si apre d'avanti è una traccia intensissima, molto molto sentita, ricca di cambi di dinamica, di momenti quasi epici, cinematografici. 


Credo che The Fallen Ones abbia un grandissimo pregio, ed è quello di essere alla portata sia  di chi ama le sonorità più post che da chi cerca il tocco dei sintetizzatori nella musica. Questo grande equilibrio è frutto dall'esperienza dei Collapse Under the Empire, esperienza che si veda con grande chiarezza in questo bellissimo disco.

Voto 8,5/10
Collapse Under the Empire - The Fallen Ones
Finaltune Records
Uscita 20.10.2017

giovedì 12 ottobre 2017

The Fright - Canto V: l'inferno alla portata di tutti

(Recensione di Canto V dei The Fright)


Il limite tra l sacro ed il profano non ha soltanto a che fare con la religione ma in certi casi della grandissime opere d'arte sono diventate a tutti gli effetti sacre. La cultura è alla portata di tutti quanti ed è dunque facile prendere spunto dell'arte per realizzare le proprie opere. Ma è proprio lì che entra il limite tra sacro e profano. Qual è l'operazione da fare essendo ispirato da un capolavoro universale? In che modo stiamo accrescendo ulteriormente la fama di quel capolavoro invece di minimizzarlo? Non sono domande facili ma la musica è piena di esempi del genere. 

Canto V

Faccio quest'introduzione perché il quinto album dei tedeschi The Fright è intitolato Canto V come il primo inferno della Divina Commedia di Dante. Nell'anno e poco di più da quando ho aperto questo blog questa è la seconda volta dove musica e l'opera mastra di Dante si mescolano e curiosamente i due lavori in questione sono molto diversi. C'è da dire che la scelta di questo titolo non corrisponde soltanto al canto prima descritto ma va in linea anche col fatto che questo è il quinto album nella carriera della band. Per lo tanto non siamo proprio di fronte ad un disco concettuale o a un modo di portare in una dimensione musicale parte dell'opera dantesca. Anche se questa, come vedremmo di seguito, è una mezza verità. Quello che viene fuori è un disco di facilissimo acceso che si nutre di brani concisi, di melodie effettive e di una serie di armonie, sia a livello strumentale che vocale di grande impatto. In altre parole questo è un disco pensato per un vasto pubblico, quel pubblico che accoglie con entusiasmo quelle forme di canzone che ti rimangono molto impresse in testa.

Canto V

Come genere quello che viene fatto dai The Fright è un gothic rock che prende molti elementi dell'hard rock anni 80. Come funziona tutto ciò? Come se questo Canto V avesse chiaramente una traccia dark, una volontà di abbracciare quella estetica, ma per farlo si avvalesse di formule molto funzionanti come quelle dell'hard rock. Canzoni con personalità ma anche molto orecchiabili. E questa contraddizione tra genere si incrementa ulteriormente considerando che le tematiche principali dei brani di questo disco girano intorno alla critica sociale ed è qua che credo che possiamo ricollegarci con l'opera di Dante. L'inferno è molto variegato, l'inferno forse è un posto in terra che cambia sembianze asseconda di chi lo vive. Sembra che la band abbia voglia di sottolineare come tanti aspetti ci portano a vedere che l'inferno sta dappertutto, che l'affrontiamo di giorno in giorno. Per quello credo che c'è un collegamento importante che va oltre alla semplice scelta del titolo di questo disco.

Canto V

A chi piacerà questo disco? A tutti quelli che amano il mondo gotico e che non cercano forme musicali complesse. Credo che questo è un disco che funziona particolarmente bene tra i giovani, tra quelli che da poco si addentrano nel mondo del rock/metal/gotico. Penso che Canto V possa essere una porta d'ingresso che li porti a conoscere tante altre realtà musicali che hanno dei punti in comune con questo lavoro dei The Fright.

The Fright

Come faccio di solito vado a prendere due brani che dal mio punto di vista fanno capire con chiarezza che cosa possiamo ascoltare in questo album.
Il primo è la traccia d'apertura del disco, Bonfire Night, brano che mette in evidenza quelle due anime della band. Questo perché inizia con un tocco gotico molto bello che ricorda tanti lavori del genere, ma è solo l'intro, perché quando la canzone esplode si capisce che è tutto molto rock, che c'è quella voglia di costruire brani che funzionino molto bene. In un certo modo ricorda molto quello che hanno fatto gli Him.
Il secondo brano invece mi fa pensare ad un'altra band tedesca dello stesso genere: i Mono Inc. Il brano è Oblivion. Forse qua la parte hard lascia molto  più spazio a quella gothic. Il gioco tra voci maschili e femminili è molto bello sembrando quasi un brano vampiresco. Questo è uno dei punti più alti di questo disco.


Canto V è un disco che ha la funzione di far diventare molto usufruibile una serie di elementi che potrebbero avere un trattamento molto ostico e come dico spesso riuscir a trasformare queste idee in un prodotto che riesce facilmente ad arrivare a tutta un serie di persone non è mica semplice. Ci vuole del tatto e del talento per farlo ed i The Fright  sembrano sapere perfettamente che acque navigare.

Voto 7,5/10
The Fright - Canto V
Steamhammer/SPV
Uscita 13.10.2017

mercoledì 11 ottobre 2017

Kabaret Makaber - Kabaret Makaber: niente di più esotico dello swing norvegese

(Recensione di Kabaret Makaber dei Kabaret Makaber)


E' incredibile come certi generi abbiano la capacità di evocare scenari molto precisi. Ben poco importa se vengono suonati lì dove sono nati o a migliaia di chilometri. Ben poco importa la lingua con la quale vengono costruite le canzoni, il risultato è sempre lo stesso, delle immagini molto chiare e della associazioni mentali a tutta una serie di concetti che rimangono sempre fedeli.

Il jazz swing è stato un genere che ha tradotto l'eleganza ed il divertimento degli anni 30. Tutt'ora oggi c'è gente che è affascinata da questo modo di passare il tempo libero e di cercare grande divertimento. Ma come capita spesso con tante forme espressive quando iniziò la seconda guerra mondiale quel divertimento diventò molto più underground ma grazie a quello acquistò un peso diverso trattando anche delle tematiche diverse. Dalla eleganza si passò al buon vivere, alla voglia di divertirsi sfidando anche quello che succedeva fuori. Mi è difficile pensare ad un altro genere musicale che abbia subito la stessa evoluzione e che abbia regalato degli spunti così interessanti. Sicuramente per quello dalla fredda Norvegia un gruppo di musicisti hanno subito così tanto il fascino di questo genere da arrivare a suonarlo e a farlo proprio. Il risultato ha un nome chiaro: Kabaret Makaber. Ma come capita quando si pesca qualcosa che non fa proprio parte della tua realtà culturale è molto interessante vedere come si trasforma tutto e come diventa un linguaggio locale. E' proprio quello che capita con questo primo disco di questa band perché nelle loro canzoni si mescola la loro realtà geografica, che molto spesso si traduce con la solitudine e l'impossibilità di fare molte cose e l'immagine immaginaria di qualche esotico e misterioso straniero che porta con sé una serie di aspetti inesistenti nella fredda Norvegia.

Apollon Records

Tutto questo a ritmo di questo jazz che riesce a attraversare una serie di stati d'animo, essendo dunque molto festoso, e prendendo di conseguenza tutte le sembianze dello swing, ma essendo anche molto nostalgico, come se si trattasse di una esternazione della propria sfortuna in amore e dalla sensazione non solo di essere da solo ma anche di non riuscir a trovare qualcuno che corrisponda veramente ai desideri. Tutto questo viene messo insieme dentro a questo Kabaret Makaber, un disco che gode di piena libertà avendo come unico vincolo quello di essere molto teatrale. Tutto quello che ascoltiamo un questo disco sembra molto costruito perché veramente abbiamo l'impressione di essere di fronte ad uno spettacolo recitato, e l'intento si compie ancora di più perché diventa qualcosa di assolutamente esotico. Pensare ad una orchestrina jazz nella fredda Norvegia è sicuramente un accostamento molto esotico. Un altro punto che aiuta molto a che questo sia un disco che funziona molto bene è dovuto alla presenza vocale femminile, una voce molto bella è dinamica, capace di essere festosa, sensuale e nostalgica asseconda di quello che deve comunicare, ma anche riuscendo ad ammorbidire una lingua che foneticamente non è tra le più dolci com'è il norvegese.

Kabaret Makaber ha il fascino di quelle persone con una personalità talmente forte da sembrare sempre fuori di contesto, ma che cercano proprio quell'effetto, che vogliono che gli altri li vedano come le pecore nere, ma non per quello che non facciano parte di un tessuto sociale più grande. Anzi il loro apporto diventa fondamentale perché è una voce fuori dal coro che permette di guardare tutto con altri occhi. Questo è un disco divertente, esotico, piacevole ed interessante.

Apollon Records

Come detto prima sono diversi i momenti che attraversano questo lavoro. Io ho scelto d'illustrarvi i due principali: quello festoso e quello nostalgico.
Per quanto riguarda quello festoso la mia scelta ricadde su Djevelen, canzone che apre questo disco. L'intro di batteria lascia già molte cose in chiaro, la prima è che non si tratta di un disco anacronistico, che non si tratta d'imitare quello che veniva fatto anni ed anni fa ma che c'è un aggiornamento di quello che sono le tematiche musicali della band. Lo sviluppo del brano ci fa capire che questo è un disco fatto di mescola, c'è l'attitudine rock, quasi punk, come se la band fosse la versione morbida dei Diablo Swing Orchestra, ma c'è anche la teatralità e naturalmente il jazz. 
Dans med meg invece rispecchia la parte più intima e nostalgica della band. E come capita spesso quando si vede qualcosa del genere la figura femminile della cantante acquista i connotati della diva. Questo è uno di quei brani che congelano l'aria catturando completamente l'attenzione di tutti i presenti. E' uno di quei brani che crea una parentesi nel tempo durante la quale non c'è altri all'infuori. Vellutato.

Credo che l'intento proposto dai Kabaret Makaber trovi piena soddisfazione in questo loro primo album. Da una parte perché è un disco suonato da musicisti che sanno fare perfettamente il proprio mestiere, dall'altra parte perché quell'esotismo, legato ad un modo di raccontare storie che potrebbero sembrare di completa finzione ma che in realtà traducono molti elementi di quello che vivono odiernamente, è affascinante e molto interessante. Un gruppo da seguire con attenzione.

Voto 8/10
Kabaret Makaber - Kabaret Makaber
Apollon Records
Uscita 13.10.2017

martedì 10 ottobre 2017

Mork - Eremittens Dal: tornare alle origini

(Recensione di Eremittens Dal dei Mork)


Una delle domande più valide che possono essere fatte quando si teorizza sulla musica è quella legata a l'evoluzione di un determinato genere. Più nello specifico a quando un modo di suonare quel genere diventa "old school" lasciando così spazio ad un nuovo, o a nuovi, modi di suonare lo stesso genere. A cosa è dovuta quell'evoluzione? Ed è misurabile in qualsiasi modo? Io credo di non, penso che sia un processo che viene capito soltanto alla distanza, quando guardando indietro si capisce che nulla è rimasto così com'era.

Il terzo album degli Mork si chiama Eremittens Dal ed in un certo modo è un grande salto per questo progetto, spesso tenuto come un'alternativa sulla quale riversare del tempo da parte di Thomas Eriksen, unica mente dietro a questo gruppo. E' un grande salto perché il disco uscirà pubblicato da una casa discografica di colto come la Peaceville Records ed è un grande salto perché la musica di questo progetto a richiamato l'attenzione di mostri sacri di questo mondo musicale. Alta è dunque l'aspettativa e in questo post cercherò di farvi vedere se è compiuta o meno. La prima cosa da considerare è che musicalmente questo disco non si propone altro che essere un'opera che continui con i legato del black metal norvegese, quello che da qualche purista viene considerato come unico vero black metal. Per questo non ascolteremo nulla di rivoluzionario in questo disco, non ci sarà alcun genere di contaminazione o di sguardo rivolto al futuro. Al contrario, sembra esserci un riverenziale rispetto verso le fondamenta di questo genere.

Eremittens Dal

Ma allora, perché una casa discografica importante dovrebbe scommettere su un gruppo come i Mork? Perché fare qualcosa "all'antica" non significa non farlo bene o non regalare nulla di nuovo. Infatti Eremittens Dal  è un disco molto ben riuscito, un disco che ricorda senz'altro quello che è il passato musicale del black metal e che vuole proprio fare quello. Inutile dire allora che gli obiettivi sono stati pienamente raggiunti e che questo disco sembra il proseguo di un'epoca che ha scosso il metal come pochi altri sotto generi erano riusciti a farlo. Infatti la forza di questo lavoro sta nel portarci a memoria il perché di un impatto così drastico. Qua c'è una concezione diversa di quello che è il metal, in un certo molto più lontana dal mondo hardcore che aveva influenzato pesantemente il thrash metal ma anche lontanissimo da quei virtuosismi estetici dell'heavy metal. E neanche il death metal può considerarsi come un genere molto vicino, perché anche se ci sono dei punti in comune c'è tutta una filosofia dietro che fa cambiare tutto drasticamente. Il black metal di questo disco è primordiale, ha il sapore della foresta, dell'ululato del lupo, delle terre vichinghe che si sono nutrite di sangue e dei racconti delle gesta dei suoi abitanti. Ma è soprattutto quel modo di essere selvaggio, di non curarsi dei dettagli quello che dà la forza a questo lavoro.

Ogni tanto serve ricordare certe caratteristiche essenziali di certi generi, perché l'evoluzione è così drastica da spazzare via certi elementi. Per quello questo Eremittens Dal ha contatto con questa aspettativa, con questa voglia di capire dove potesse arrivare la musica di questo progetto. Questa è la forza dei Mork, quella di ricordarsi e mettere nella pratica gli elementi che hanno fatto del black metal un linguaggio musicale senza uguali. E questo suo intento non è né migliore né peggiore di quello che possono mettere in atto dei gruppi con una visione più espansiva ma è validissimo perché fatto molto bene.

Mork

Prendo due brani che mi sono particolarmente piaciuto in questo lavoro.
Il primo è Et Rike I Nord. Si sente sin da subito quella radice così addentrata nel black metal vecchia scuola ma è un piccolo piacere, un piacere che ricorda quei riff sporchi, con suono lo-fi ma pieni di melodie strazianti che non si svelano con chiarezza. Ma questa spicca maggiormente visto che si tratta di un brano strumentale.
Il secondo, che invece è cantato, è il brano di chiusura del album, Grav¢l e ha tutto quello che si certa in un brano black metal. C'è questa oscurità onnipresente, questo tocco di nostalgia, questo modo di essere dissacrante ma con una poetica fortissima. Infatti quella è un'altra caratteristica di questo genere, che è profondamente poetico, che utilizza sia a livello di parole che musicalmente, una serie di risorse poetiche invece di essere rudi e diretti. Questo brano lascia in chiaro tutto ciò.


Credo che la scommessa messa in atto sui Mork si compia perfettamente, e che questo Eremittens Dal sia un'opera riuscitissima. Un disco che parte con certe ambizioni che magari non sembrano monumentali ma che lo stesso non sono facili da raggiungere. Non è un omaggio, non è un lavoro anacronistico ma è semplicemente un album che sa quello che cerca e che lo trova perfettamente.

Voto 8/10
Mork - Eremittens Dal
Peaceville Records
Uscita 13.10.2017

lunedì 9 ottobre 2017

Trivax - Sin: buttare giù l'intolleranza col metal

(Recensione di Sin dei Trivax)


Qualche volta c'è da dire che la musica non si sceglie ma è lei a scegliere te. Essere musicista non è affatto semplice perché tranne qualche piccola eccezione non si tratta di un lavoro con una retribuzione fissa. Riuscir a vivere di musica è un'impresa non da poco, soprattutto se si sceglie di suonare certi generi che non sono alla portata di tutti ma diventano un po' di nicchia. Ma c'è un altro fattore maggiore che entra in gioco, ed è il fatto che la realtà che possiamo vedere e vivere qua non è la stessa in tutto il mondo. In certi paesi fare certi generi di musica o affrontare certi discorsi è assolutamente vietato e punito dalla legge. Bisogna avere coraggio per fare musica anche di fronte a questi pesantissimi limiti, coraggio e passione.

Qualche mese fa ho avuto il piacere di ricevere a casa il primo cd, auto-prodotto, degli Trivax, band inglese figlia della volontà di Shayan S., chitarrista e cantante iraniano. Il disco si chiama Sin ed è un lavoro pregevolissimo, soprattutto considerando che si tratta di un'opera auto-finanziata. Ma prima di addentrarci dentro a questo disco credo che sia fondamentale accennare alla storia del gruppo. Nati in Iran nel 2009 hanno sfidato le autorità locali suonando un genere assolutamente vietato e mal visto. Una lotta non indifferente che diventa quasi una scelta di vita. Sicuramente la loro esistenza era così fragile da aver fatto decidere al leader della band a cambiare paese e trovarsi in un posto dove fosse più semplice portare avanti il proprio arte, per quello l'Inghilterra è diventata la sua nuova casa, sicuramente molto più tranquilla verso la sua musica con rispetto alla sua nazione natia. Credo che per quello Sin sia un disco che diventa una coronazione di un sogno, una specie di affermazione del genere "ce l'ho fatta" ed anche per quello questo lavoro gira tanto sulla figura del frontman iraniano, principale compositore di quasi tutte le tracce di questo disco.

Sin

Ma perché i Trivax erano mal visti nella loro patria? Perché il genere da loro praticato è un black/death metal che questiona pesantemente l'organizzazione globale, sia a livello di società che anche a livello spirituale. E lì dove qualsiasi voce dissidente non merita di esistere tollerare qualcosa del genere è impensabile. Ma la cosa paradossale e che personalmente non capirò mai è che quello che possiamo ascoltare in questo Sin non è affatto scandaloso o brutto. Non è per nulla più estremo di tanti altri gruppi ma rappresenta soltanto un modo di fare musica. Le tematiche sicuramente non sono ottimistiche, non si canta alla bellezza della vita o quant'altro ma chi è intelligente sa che bisogna leggere tra le righe, che i messaggi forti sono spesso dei modi per scuotere le menti, per farsi domande, per questionare tutto quanto con l'intenzione di dare con qualche verità più soddisfacente. Questo disco non ha nulla di blasfemo, d'irrispettoso o di sconveniente. Non è neanche così spinto a livello musicale da sembrare difficile ed inascoltabile. E' un disco cauto dentro al mondo del black/death metal e diventa interessante il suo ascolto.

Com'è il mondo che viviamo in confronto al mondo che vorremmo? Ognuno avrà la sua risposta ma da parte mia è molto ma molto diverso da quello che vorrei. Ed in un certo mondo ho la fortuna di aver vissuto sempre in posti abbastanza tolleranti. Per quello mi è difficile pensare alle realtà dei paesi di ermetica chiusura dove la stessa musica è vista come un atto di perversione. Nel mio percorso ho potuto constatare che in paesi come l'Iran l'entusiasmo che viene generato dal metal è fortissimo e c'è tanta gente che ama alla follia tutto quello che ha a che fare con quel mondo. A questo punto mi chiedo se tutto il proibizionismo non fa altro che aumentare la voglia di musica e di trasgressione. Credo che questo Sin si nutra di quello, della voglia di sembrare ancora più "scorretto" in un mondo dove non deve proprio esistere il peccato. Questa è la terapia dei Trivax che urlano il loro dissenso.

Trivax

Torno alla musica di questo disco che è quello che alla fine conta veramente e consiglio particolarmente l'ascolto di due brani.
Il primo è Voidstar ed è la traccia più monumentale di questo lavoro andando oltre i dodici minuti di lunghezza. Credo che si senta molto chiaramente quello che dicevo prima, cioè che quello che fa la band non è scandaloso ma, al contrario, diventa anche "usufruibile" da un ampio pubblico. Si nota anche che c'è una certa propensione verso i suoni più old school. Ma quello che abbiamo di fronte è un brano che funziona perfettamente, un brano sentito dove la band dà il meglio di sé.
Il secondo è Deathborne. Più concreto della traccia descritta prima l'ho scelta perché dimostra anche che la band non rimane fossilizzata in un'unica direzione. Mi piace molto il contrasto che si crea tra le chitarre armonizzate e il ritmo di batteria, come se sovrapponessero due discorsi che sembrano diversi ma che in realtà vanno benissimo dalla mano. Bel brano.


Quando potremmo affermare di vivere in un mondo veramente libero? Io non lo so bene ma credo che uno degli aspetti principali per raggiungere quest'utopico ideale è quello della tolleranza totale. Quando ci sarà la piena libertà di esprimere al meglio quello che si sente allora si potrà dire che il mondo sarà un posto migliore. E in quel modo dei lavori come questo Sin non dovranno nascere lontano dalle proprie patrie. Il miglio augurio che posso fare ai Trivax è quello di riuscir a tornare in Iran a vivere della loro musica.

Voto 8/10
Trivax - Sin
Auto-prodotto
Uscita 13.11.2016

domenica 8 ottobre 2017

The Spirit - Sounds from the Vortex: impressionante debutto

(Recensione di Sounds from the Vortex dei The Spirit)


Una prassi che seguo sempre quando ascolto per la prima volta qualche materiale che mi è arrivato è quella di informarmi il meno possibile su quello che sto per ascoltare. Lo faccio perché non voglio alcun genere di condizionamento. Voglio che la musica mi arrivi diretta per quello che è e non per quello che qualcuno vorrebbe che fosse. Generalmente molte cose che vengono fuori ascoltando questi dischi sono in perfetta linea con le informazioni forniti in quelli che vengono chiamati i "press kit" ma in certi casi mi ritrovo a sorprendermi su certi aspetti che dimostrano che ascoltare senza condizionarsi è fondamentale.

Sounds from the Vortex

Faccio questa premessa perché col disco che sto per raccontarvi, chiamato Sounds from the Vortex mi è successo qualcosa di particolare. Dopo un paio di ascolti ero sicuro di essere di fronte all'opera di un gruppo consolidato che magari aveva già pubblicato diversi lavori, ed invece per The Spirit questi è il loro primo disco. Perché qualcosa del genere mi porta ad essere sorpreso? Perché nella mia esperienza so che nella grande maggioranza dei casi un primo disco racchiude in sé delle sfumature d'imprecisione, di discorsi non conclusi a dovere, ed è qualcosa abbastanza logica perché fare musica è affrontare un percorso affatto semplice e quando ci si ritrova nella dinamica di gruppo mettere d'accordo tutti quanti ed andare nella stessa direzione come una mente unica è un compito che generalmente viene fuori soltanto col tempo e l'esperienza. Invece in questo disco sembra di assistere ad un progetto con le idee assolutamente chiare che non lascia spazio ad alcun genere di crepa. Credo che sia fondamentale sottolineare quest'aspetto perché è difficile trovare un pregio maggiori nel debutto di una band.

Sounds from the Vortex

Sounds from the Vortex è un disco black metal di scuola svedese e anche se ci sono tanti esempi di quello che viene fatto in questo versante musicale c'è da dire che i The Spirit sono in perfetto grado di regalare un pugno di brani che funzionano perfettamente, che non hanno sbavature o punti d'inflessione. Sorprende tutto questo perché è da concepire che un disco non riesca a volare sempre in alto. Invece qui succede proprio quello. Non ci sono passi falsi, non ci sono pause riflessive, non ci sono esperimenti falliti, tutto gira nella direzione giusta, tutto viene fatto a dovere. Credo che non sia sbagliato immaginare che questa band darà molto da parlare nel suo futuro immediato.

Sounds from the Vortex

E' abbastanza logico dire che questo Sounds from the Vortex non sia un disco per tutti. Il suo modo di esprimere questo black metal molto lanciato, energico ed asfissiante può risultare molto ostico per chi non ama questo genere. Invece per chi si ritrova con piacere a perdersi sotto questa valanga di suoni sarà molto difficile non riconoscere i grandi pregi di questo primo disco dei The Spirit, un disco dove, stando alle loro proprie parole, la band ci ha messo il cuore, e questo arriva.

The Spirit

Ho scritto prima che questo è un disco che non ha momenti di calo ed è dunque un po' difficile scegliere un paio di brani da portare un po' più in alto con rispetto agli altri ma io ci provo.
Scelgo Cosmic Fear perché essendo la seconda traccia dell'album mette subito le cose in chiaro. Chitarre che cavalcano la strada tortuosa costruita da una base ritmica perfettamente funzionante. Una voce che va a chiudere i cerchi per quanto riguarda la costruzione musicale di queste canzoni e dunque un brano effettivo al cento per cento.
Cross the Bridge to Eternety è invece un brano più epico, dire che è più lento ed articolato diventa un eufemismo ma rappresenta senz'altro l momento "diverso" del disco. Preziosi gli arpeggi di chitarra che dialogano con dei riff molto ben riusciti. Quelle parti mi portano alla mente lavori come quelli dei canadesi Eidolon, che anche se fanno un altro genere tendono a dare queste sensazioni con il loro modo di scrivere canzoni.


Quale sarà l'alchimia che è riuscita a far sì che questo debutto risultasse così concreto e ben riuscito? E' molto difficile da dire perché dietro a The Spirit non c'è neanche un lavoro di prove o composizione lungo. Forse la spiegazione sta nel fatto che l'unità di pensiero e di lavoro come band ha dato dei frutti gustosissimi. Sounds from the Vortex è un trionfo di black metal.

Voto 8/10
The Spirit - Sounds from the Vortex
Eternal Echoes
Uscita 13.10.2017