giovedì 30 giugno 2016

Kayo Dot - Plastic House on Base of Sky: L'ennesima mossa geniale di Driver and Co.

(Recensione di Plastic House on Base of Sky dei Kayo Dot)


La genialità, spesso, è rischiare. La genialità non risponde a regole. Non è prevedibile. La genialità non è ragionata. La genialità è istintiva perché dentro a quell'istinto si cella la ragione e l'emotività. Il leader dei Kayo Dot, Toby Driver, è geniale e lo è sempre stato. Ha corso dei rischi e qualche suo lavoro risulta ostico e di difficile ascolto. Tante altre opere, invece, sono meravigliose e ci hanno segnato la strada su quello che musicalmente ci emoziona e ci conquista. Sia con il gruppo che abbiamo appena nominato, sia con i grandiosi maudlin of the Well, ci sono dei dischi che fanno parte della nostra personale classifica dei migliori dischi di sempre.

L'iperbole nella carriera di Driver è particolare. Anche se, sicuramente, non ha mai assaporato la fama e la gloria, i suoi esordi con ogni nuovo progetto hanno sempre lasciato un segno non indifferente per poi vivere un'epoca ricca di ombre e di maggior anonimato. Parlando dei Kayo Dot potremo cifrare questa tappa nel periodo che va dal 2008 al 2012, dove sono stati sfornati tre dischi rischiosi ed eccessivamente introversi che si distoglievano dalle meraviglie iniziali chiamate Choirs of the Eye (del 2003) e Dowsing Anemone with Copper Tongue (del 2006). La rinascita musica è avvenuta nel 2013 quando Hubardo dimostrò che i Kayo Dot avevano tanto da far ascoltare ancora.




Abbiamo aperto questa review parlando di genialità. Del rischio che comporta essere geniale, della difficoltà che si riscontra nell'interpretare certe mosse. Dopo Hubardo sembrava logico che i Kayo Dot avessero vita facile, che avessero rinnovato la formula del successo. Invece no. Hanno cancellato tutto e sono ripartiti quasi da zero. Hanno abbandonato certi elementi caratteristici della loro musica e hanno abbracciato altre sonorità e, soprattutto, altre intenzioni. Il disco della svolta è Coffins on Io del 2014. Un portale aperto all'elettronica messa a servizio dell'atmosfera noir che la band statunitense voleva trasmettere. Grande rischio, perché dei Kayo Dot che vi abbiamo raccontato c'era ben poco, o, piuttosto, un primo ascolto superficiale poteva far credere che tutto era cambiato, invece, ascoltando con calma, le tracce avanguardiste che hanno sempre contraddistinto il gruppo erano sempre lì, ma avevano cambiato pelle. 

La notizia di un nuovo lavoro discografico della band non poteva che destarci curiosità. Cosa avremo trovato in questo nuovo lavoro chiamato Plastic House on Base of Sky? L'estro di Driver avrebbe azzerato di nuovo tutto e ci saremmo ritrovati a codificare di nuovo i suoi messaggi musicali? O, invece, avremo assistito ad un approfondirsi della strada intrapresa nel loro ultimo LP? La risposta è la seconda. Questo nuovo lavoro dei Kayo Dot esaspera gli elementi presenti nel disco del 2014. Non c'è alcuna traccia di quel metal cattivo che s'intrecciava con la parte psichedelica ed esperimentale dei primi due dischi, poi ripresa con Hubardo. Qua non c'è metal, non ci sono suoni distorti, non ci sono ritmi martellanti di batteria. Qua c'è tanta elettronica, ma mixata egregiamente con gli strumenti non digitali, in primo luogo la chitarra di Driver e la batteria di Keith Abrams.




Le cinque tracce che conformano questo nuovo lavoro della band di San Francisco sono molto coerente e legano perfettamente tra di loro. C'è una chiara e concreta intenzione che si rispecchia in tutti i secondi del disco. E' un viaggio attraverso i paesaggi dipinti dai Kayo Dot. Non sono paesaggi semplici, spesso sono luogo senza tempo, più onirici che reali. L'accostamento che viene spontaneo da fare è quello di avvicinare questo disco a certi elementi dei grandissimi Dead Can Dance, o ai Vangelis  della colonna sonora di Blade Runner. Ma non è solo quello. Nella quarta traccia, Ring of Earth, è impossibile non pensare ai Talking Heads. Insomma, le sfumature di questo lavoro sono tante, tantissime, quanto gli strumenti presenti. Oltre ai synth, la chitarra e la batteria, precedentemente nominate, sono stati suonati in questo disco: il saxofono, il violino, la viola, il violoncello, il contrabbasso, il clavicembalo, l'organo a canne, il mellotron ed una serie ancora lunghissima di strumenti classici e non solo.
Fare quest'elenco non è una cosa gratuita ma ci aiuta ad illustrare la grande virtù di questo disco. Di fronte a tutta questa serie di strumenti è semplice pensare che questo Plastic House on Base of Sky sia un disco sinfonico, pieno di arrangiamenti. Invece la presenza di questi strumenti viene messa in gioco nella creazione di testure musicali che illustrino ancora meglio quello che il disco vuole raccontare. Il risultato finale è compatissimo, asciutto, corretto.

Come consiglio la traccia, che può servire come accesso a questo lavoro, è la prima Amalia's Theme, brano ipnotico, quasi orientale. Un brano pieno di profumi, di giochi di luce.




Tirare le somme non è semplice. Sono molto gli elementi che vengono soppesati e che possono influire il giudizio. Il primo è la storia della band e le diverse tappe musicali che, come al solito, possono avvicinare o allontanare gli ascoltatori. Se qualcuno ha amato alla follia gli esordi del gruppo allora deve stare alla larga di questo disco. Se, invece, l'aspetto che è stato sempre il più celebrato è quello della sperimentazione senza limite allora questo è un disco validissimo. Lo è, anche, per chi prova urticaria di fronte al metal più estremo ed ama l'elettronica ambient e non invasiva. E' una prova onestissima di genialità di un gruppo che riesce a reinventarsi come se fosse la cosa più naturale al mondo. Come sempre il futuro è imprevedibile ma il presente è questo è bisogna goderselo.

Voto 8,5/10
Kayo Dot - Plastic House on Base of Sky
The Flenser
Uscita 24.06.2016

Sito Ufficiale Kayo Dot
Pagina Facebook Kayo Dot

martedì 28 giugno 2016

Gojira - Magma: Concreti e diretti come la natura

(Recensione di Magma dei Gojira)


Ci sono certi dischi che necessitano di diversi ascolti perché la prima impressione cambia e si approfondisce con ogni nuovo play. Non soltanto, ma spesso si corre il rischio che la superficialità di un primo ascolto nasconda degli elementi veramente interessanti.

Questo succede con questo nuovo disco dei francesi Gojira. Il nome Magma è sicuramente azzeccatissimo, al meno per quanto riguarda la sensazione sonora. Come ben sappiamo il magma è, volgarmente parlando, della roccia liquida. Un insieme compatto, rovente, asfissiante nel quale è sicuramente difficile apprezzare delle sfumature. Ma quando emerge in superficie e diventa solido, allora prende tutta un'altra dimensione.
La stessa cosa capita con questo disco. Il primo ascolto regala un blocco compatissimo, energico e ritmico ma di difficile interpretazione. E', dunque, necessario tirar fuori la roccia liquida, lasciarla raffreddare e, poi, riascoltare. Facendo quest'esercizio quello che si svela è che oltre a quella compattezza, questo sesto disco di studio, di questo quartetto oltre alpino, regala dei brani di brillante quadratura che si comportano in modo molto diverso asseconda del loro scopo. 




Nelle due recensioni precedenti, anche se non c'eravamo occupati di due dischi dello stesso genere (o sub-genere), avevamo affrontato due lavori con dei brani molto lunghi, tutti sopra i sei minuti. Questo lavoro dei Gojira, invece, è un mosaico di diversità in quanto a durata. Andiamo dal brevissimo Yellow Stone, solo un minuto e diciannove secondi, nei quali si riesce a creare una canzone completa e coerente senza che sia punk!!! La title track (sesta traccia del disco), invece, si sviluppa in sei minuti e quarantadue secondi. Più di cinque minuti di differenza che non impediscono la perfetta riuscita delle due canzoni.
Quest'elemento non è minore perché trasuda l'esperienza della band che ha il grandissimo pregio di contare con gli stessi componenti da quando, vent'anni fa, è venuta al mondo. La chiarezza nel voler far arrivare il messaggio di ogni brano funziona, e viene fatta con le "armi" che il gruppo sa di avere. Non ci sono elementi artefatti ed una della particolarità dei Gojira, considerati tra i più esperimentali dei loro genere, viene dosata da manuale.

Questo Magma non è un disco sorprendente, non è un disco esplosivo, ma è un disco di una sicurezza sconvolgente. E' un disco di una naturalità palpabile che fa capire che le ore ed ore in sala prova danno quel in più che spicca subito quando un gruppo non è più un insieme di elementi ma è un'entità propria.




Bisogna essere molto grati ai Gojira perché gruppi como loro servono ad illustrare la bellezza di quel, oramai, universo infinito chiamato metal. La loro attitudine ambientalista non è soltanto un pretesto letterario per scrivere i testi ma è un'impronta guida nella loro musica. Le loro canzoni sono toste quanto può essere tosta la natura. Mentre, molto spesso, certe ritmiche, certi giochi tra due chitarre e certi stacchi sembrano delle fotocopie troppo forzate tra gruppi e gruppi loro non si avvicinano neanche un po' a questa sensazione. Musicalmente tutto dialoga con l'idea che c'è dietro al gruppo.


Come al solito non ci interessa fare un'analisi approfondita di tutti i brani e vi lasciamo qualche consiglio. Il primo brano è Stranded, scelto dal gruppo come singolo. Decisione azzeccata perché difficilmente c'è qualche altro brano, in questo disco, che sia così riassuntivo di quello che troviamo in questo Magma. Altre due tracce da ascoltare necessariamente sono il brano d'apertura, The Shooting Star, e Magma, che vi avevamo già segnalato per via della sua durata.




La cosa interessante di questo quartetto francese è che nelle canzoni dei Gojira si comprende come passato, presente e futuro possono coniugarsi armonicamente. Ascoltare i Gojira è sentire il death metal degli anni 90, è sentire tracce dello stoner dei duemila in certe scelte sonore, per arrivare a percepire sfumature del avantgarde metal  di questi ultimi dieci anni. Tutto in un equilibrio che assomiglia tanto quello della natura.
Un bel lavoro, concreto, diretto ed equilibrato. 

Voto 8/10
Gojira - Magma
Roadrunner Records
Uscita 17.06.2016

Sito ufficiale Gojira
Pagina Facebook Gojira

sabato 25 giugno 2016

Dark Suns - Everchild: Quando il cuore parla con la testa

(Recensione di Everchild dei Dark Suns)


Nella vita di un gruppo, così come nella vita di qualsiasi persona, lo scopo principale è, sicuramente, quello di raggiungere una maturità che traduca fino in fondo la personalità musicale che fa di una band qualcosa di unico ed inuguagliabile.

Per i Dark Suns, forse, questa maturità è stata più sofferta del solito. Non tanto per il loro conto, quanto per i costanti paragoni che hanno subito. Spesso accostati agli Opeth, non solo per sound ma anche per evoluzione, passaggio da sonorità più metal ad altre che ricordano tanto il prog anni 70. "Vittime" di avere una voce, del bravissimo Niko Knappe, che assomiglia notoriamente a quella di Daniel Gildenlöw dei Pain of Salvation, è sempre stato facile togliere meriti a questa compagine tedesca.


Everchild, il disco del quale ci occupiamo quest'oggi, ha il grande merito di spazzare via tutte queste premesse. In modo assolutamente autorevole. 

Questo disco è sinfonico non tanto nei suoni quanto nella sua concretezza. E' un lavoro ricchissimo che si nutre di tastiere maestose che fanno di collante perfetto nell'intricato percorso che ogni brano rappresenta. Forse sta proprio lì la forza di questo lavoro, nella sua ambizione, nel voler essere un lavoro curatissimo, ricco di arrangiamenti, di armonizzazioni vocali, di fiati inattesi che sorprendono sin dalla prima traccia lasciando intendere chiaramente che chi ha scritto questi brani, non soltanto non è uno sprovveduto, ma è qualcuno che conosce perfettamente il linguaggio musicale.


Se mettiamo l'accento su questi tre elementi, tastiera, fiati e voce, non è perché il resto della band non risalti ma perché veramente questo non è un disco chitarristico o proprietario di una base ritmica rivoluzionaria. No, ma chitarra, basso e batteria fanno perfettamente il lavoro che devono fare, essendo concreti e semplici dentro alla semplicità che il rock/metal progressivo permette.

Se pensiamo al disco precedente della band, il lontano Orange, uscito nel 2011, possiamo confrontare entrambi i lavori vedendo che, mentre cinque anni fa dava l'impressione di ascoltare un disco eccessivamente immerso nel prog anni 70, questa nuova fatica ha un equilibrio studiato. Questo è un lavoro pensato e ripensato fino ad aver raggiunto un "ok, ci siamo".

E' un LP progressivo, quest'impronta è indelebile, ma la cosa fondamentale è che è un LP dei Dark Suns. Mi spiego meglio. Con questo Everchild non viene più l'impressione di dire: "ah sì, quelli che assomigliano i Pain of Salvation o gli Opeth", no, questo non è un disco che potrebbe essere partorito da queste grandissime band scandinave. Questo è un disco con una personalità intrinseca che ha come nome Dark Suns.




I brani sono fedelissimi alla tradizione progressiva e si aggirano tra i sei e i dieci minuti. Il consiglio è sicuramente quello di ascoltare la title track, canzone che inizia con un assolo di pianoforte per poi esplodere in un ingresso estasiato di tutti gli strumenti. E' sicuramente la canzone col bpm più alto del disco e riesce a ricreare, grazie ad una serie di arrangiamenti molto ben costruiti, un'atmosfera trascinante, tanto onirica quanto inquietante. Il brano finisce con una coda ripetitiva che ha la forza di imprimere nell'ascoltatore il messaggio voluto. Bisogna, anche, menzionare la presenza di una cover. Si tratta di Yes, Anastasia di Tori Amos, regina dell'emotività che nasce dalla concretezza del mix pianoforte-voce. I Dark Suns, invece, si divertono a trasformare quella essenzialità in un brano che è perfettamente in linea con tutte le altre tracce di Everchild.

Ben vengano altri dischi come questo. Ben vengano altri gruppi come i 
Dark Suns. Perché lavori come questo dimostrano che c'è ancora tanta vita nella musica progressiva, una vita che si nutre, sicuramente, dall'insegnamento dei grandi mostri sacri della decade dei settanta, ma che cresce e raggiunge nuovi lidi grazie a quello che continua a farsi oggi.

Voto 8,5/10
Dark Suns - Everchild
Prophecy Productions
Uscita 3.06.2016

giovedì 23 giugno 2016

Facciamo un giro nel mondo post apocalittico (Recensione di ''Memento Collider'' dei VIRUS)

(Recensione di Memento Collider dei Virus)


Attenzione. Questo disco non è un disco facile. Non è un lavoro easy listening. Se vi volete avvicinare al suo ascolto dovete affrontarlo con una grande apertura mentale lasciando fuori i preconcetti e quello che generalmente s'intende per "musica".
Questa premessa non si basa su elementi che un ascoltatore potrebbe trovare "sgradevole" come potrebbero essere delle voci in growl o scream, nell'utilizzo della doppia cassa martellante o nelle chitarre elettriche abbinate a distorsioni che "friggono". 
No, se mettiamo le mani d'avanti è perché il sound di questo power trio norvegese si basa sulla sovrapposizione perfetta, non tanto di tre strumenti più la voce, quanto di tre ruoli assolutamente diversi e completamente riconoscibili.


Partiamo dalla base ritmica. La batteria di Einz è un esercizio di originalità che attraversa diversi generi con una grandissima facilità. E' un collage di fotografie ritmiche che finiscono per essere il sostegno di ognuna delle sei tracce che formano questo LP.

Parlando, adesso, del basso di Plenum, graditissimo ritorno di uno dei membri formatori della band, bisogna dimenticare i bassi anonimi e quasi inutili che molto spesso sono il contorno di tante band di metal estremo. 
Le tracce dello strumento a quattro corde sono onnipresenti senza mai essere invasive. Sono una cavalcata attraverso i paesaggi apocalittici, disegnati dal gruppo, lunga tre quarti d'ora. Sono abbastanza jazz da non essere metal. Sono trascinanti, cangianti, mimetiche, ipnotiche e ripetitive per poi, improvvisamente, essere esplosive.

Sopra a questa base la chitarra di Czral, leader, cantante e coautore dei testi, avrebbe avuto vita facile, ma questo vantaggio non viene sfruttato. Non ci sarebbe gusto nel essere banali, nel suonare pochi accordi, riff collaudati e power chord pesanti. Molto meglio immaginare come riempire di sfumature quella tela usando pennellate costruite con arpeggi dissonanti effettati quanto basta. Basta pensare che, anche se ormai parlare di metal è parlare di tutto e di nulla, soltanto in un unico assolo presente in una sola canzone del disco, si intravede qualche distorsione sulla chitarra.

Insomma, la sfida giocata e vinta dai cari Virus è tutto tranne banale. Con solo tre strumenti suonati impeccabilmente, ricreano un mondo sonoro unico che potrebbe prescindere perfettamente dalla voce. Ma lì abbiamo un altro colpo di genio. In che modo un cantante potrebbe completare e chiudere questo cerchio? Aggiungendo l'aspetto onirico e cantando in un modo che sembra più una declamazione che una costruzione di linee melodiche. 
Il buon Czral aveva le idee molto chiare su quello che doveva essere questo lavoro, e sapeva che per costruire un capolavoro le illuminazioni, avvolte, vengono dall'esterno. Per quello si è affidato alla scrittura dei testi collaborando con Johannah Henderson, una scrittrice inglese che è riuscita a far combaciare i pezzi del puzzle di idee del cantante norvegese.

Potremmo parlare delle tracce singolarmente, cercar di spiegarle e definirle ma è un lavoro inutile perché, anche se abbiamo detto che non è un disco facile, quando si riesce ad attraversare il portale che conduce al mondo dei Virus, è difficile mettere pausa fino a che la sesta traccia arriva alla fine. Forse, come esercizio di vanità, possiamo segnalare quali sono i brani che più si sono impressi nella nostra testa, e sono i due estremi del disco: La prima traccia Afield, la più lunga del intero lavoro. Un viaggio sonoro e lirico che fa capire che i cinque anni di attesa, per ascoltare nuovo materiale,sono valsi la pena. Poi c'è Phantom Oil Slick, canzone che percorre una strada tribale, rustica e senza tempo.

Forse ci sono tante altre cose che potrebbero essere dette. Potremmo raccontare chi è Czral e qual'è la sua importanza nella musica estrema norvegese, potremmo soffermarci sul gruppo anteriore ai Virus, gli incredibili Ved Buens Ende, ma non lo faremo. Il motivo per il quale non lo faremo è perché Memento Collider è un disco da ascoltare con la curiosità di un bambino in modo da meravigliarsi senza essersi aspettati nulla. 

In questo primo semestre del 2016 è, senz'altro, il miglior disco che ci è giunto tra le mani. Buon ascolto.

Voto: 9/10
Virus - Memento Collider
Karisma Records
Uscita 3.06.2016


mercoledì 22 giugno 2016

La musica non ha più niente da dire?

Spesso e volentieri si sente dire che non c'è più la musica di una volta, che ormai tutto è stato inventato e che è impossibile avere delle novità che siano all'altezza degli artisti del passato.

Penso che, come capita a quasi tutti i musicisti, i grandi classici siano veramente stati una fonte d'ispirazione grandissima, una scuola fondamentale. Personalmente la grande svolta della mia vita è stata ascoltare tre dischi: The Wall dei Pink Floyd, Led Zeppelin 4 dei Led Zeppelin e il Live at Wembley 86 dei Queen. Grazie a queste tre scoperte ho capito che non sarei mai riuscito a fare a meno del rock, e da allora tutti i soldi che riuscivo a mettere da parte volavano nell'acquisto di dischi.

Da ascoltatore sono passato ad essere uno studente di musica per poi, quasi per caso, invaghirmi della radio e della possibilità di raccontare via etere o streaming quello che la musica mi regala di volta in volta.

Quest'approccio mi ha permesso di scoprire, sempre, nuovi dischi e nuovi artisti. Ancora oggi, provo un'emozione unica quando, per la prima volta, ascolto un disco appena uscito. Forse questo è l'aspetto più difficile da spiegare e definire. Chissà che strano meccanismo s'innesca quando si ascolta qualcosa d'inedito, chissà che zona del nostro cervello reagisce agli impulsi sonori.

E' per quello che ogni volta che sento qualcuno sostenere che nella musica non c'è nulla di nuovo da dire automaticamente penso che chi lo dice in realtà si limita e si chiude alla possibilità di scoprire, di emozionarsi, di lasciarsi andare.

In questi giorni, uno dopo l'altro, una serie di dischi nuovi mi hanno rigenerato e mi hanno fatto capire, ancora una volta, che c'è tanta speranza nella musica, che nulla è andato perso.

Nei prossimi post, se siete curiosi, scopriremo insieme gli ultimi dischi dei Virus, dei Gojira, dei Dark Suns e di tanti altri gruppi ancora.
Ci sarete? 


lunedì 20 giugno 2016

Musica e politica

Diversi anni fa mi ritrovai ad intervistare un giovane cantautore cileno che piano piano si stava facendo strada nel mondo della musica. Il suo nome è Gepe e continua a fare dischi essendo una voce abbastanza celebrata dentro quello che è la musica latinoamericana del ultimo millennio.
Ad un certo punto dell'intervista un amico che ci stava ascoltando da Parigi mi suggerì di chiedergli se fosse di sinistra o di destra.
Gepe, dopo qualche risatina nervosa, disse che per lui non esistevano i musicisti di destra, o piuttosto, disse, ci sono molti più musicisti di sinistra che di destra e qualitativamente non c'è confronto possibile.
Sicuramente Gepe non aveva tutta la ragione del mondo perché ci sono dei casi abbastanza riconoscibili di musicisti che s'identificano con la destra, più o meno estrema.

Personalmente non m'interessa parlare di questo ne cercare di capire quale corrente politica sia madre di musicisti migliori. Se faccio queste premesse è perché ieri si è svolta una nuova tornata elettorale e nella città in cui vivo, i diversi candidati a sindaco hanno condito i diversi atti politici pubblici coinvolgendo diversi musicisti locale. Tra musicisti si è creato una sorta di caccia alle streghe puntando il dito verso chi si era permesso di partecipare con qualche coalizione piuttosto che un'altra, ed è proprio qua che voglio arrivare.

La politica, storicamente, ha sempre usato la musica. Gli USA, come sempre, sono forse l'esempio più drastico e chiaro, dove la musica prende proprio dei connotati coreografici che racchiudono al meglio quello che è la campagna che c'è dietro. Spesso si è arrivati a prendere il brano senza il consenso dell'autore. Non è un caso. La forza della musica è tale che in pochi minuti molto spesso riesce a racchiudere dei messaggi che se fossero espressi a parole, dopo ore ed ore non arriverebbero come dovrebbero. 

Se scrivo, come primo mio post, queste linee è perché riflettendo mi veniva in mente una cosa essenziale. La politica ha bisogno della musica. Senza musica il concetto che ogni politico vuole far passare sarebbe incompleto, sbiadito. La musica, invece, non ha alcun bisogno della politica. La musica ha una sensibilità che va oltre, e se deve raccontare delle cose, le racconta a prescindere di colori politici ed orientamenti. La musica è e deve essere, oltre.

I politici passano, la musica rimane.